STORIA & TRADIZIONI
Discussa è l’origine di Petilia. Una diffusa quanto controversa ricostruzione la ricollega all’antica Petelia, città magnogreca che si vuole fondata da Filottete. Mitico guerriero elleno, figlio di Peante, compagno di Ercole, di ritorno dalla guerra di Troia, egli avrebbe costruito (intorno al 1185 a.C.) Petelia, insieme a Macalla, Chone e Crimisa. In realtà l’opinione degli studiosi più accreditati attribuisce a Strongoli l’antico toponimo, e così pure la leggenda riferita. Un’altra più prudente tesi ritiene quindi che l’attuale nome possa derivare dalla dominazione di un gruppo di petiliani, trasferitisi nell’entroterra bruzio per trovare riparo e costituire migliore difesa dai pericoli provenienti dalla costa (infestata dalla malaria e dalle incursioni esterne), contemporaneamente al dissolvimento delle polis magnogreche, e con esse Petelia. Controverso anche il significato del toponimo “Petilia”. Alcuni autori lo fanno derivare da Petilion = Ilion petivit; da Petomai, volo degli uccelli, da cui gli antichi traevano gli auspici; altri lo ricavano dall’osco Petilus, piccolo. Il termine “Policastro” fu aggiunto in seguito; deriva dal bizantino Paleocastro, da Palaion, antico castrum, castello, o semplicemente acropoli. Di sicuro si ha testimonianza di una pergamena, datata 226, ascritta ad un certo “Baimundus De Campana Baiulus Policastri Testis” (firmata in greco), dove ai nomi si accompagna più volte l’aggettivo Paleocastren. Della origine greca del paese non restano tracce evidenti, se non nella toponomastica (piazza Filottete, via Magna Grecia, ecc.), nell’idioma locale e nell’ambito culturale, in cui sono presenti ancora delle reminescenze. Sempre sulle tracce delle mitiche origini, si narra che i primi suoi abitanti siano stati Osci: gli Ausoni, Aux Ioni, abitanti dello Ionio. Più tardi gli Enotri - fuggiti dalla Grecia - giunsero anche a Petilia, ed in seguito a varie rivolte, cinquecento schiavi Lucani (parte degli Enotri) si rifugiarono in Sila, e per questo furono detti Bruzi, da Bretion, pece. Così Strabone vuole Petilia abitata dai Lucani (Bruzi- Lucani); Tito Livio dai Bruzi, confederati a Cosenza. E così, ai tempi della seconda guerra Punica, la vediamo alleata di Roma, retta da un governo aristocratico di Patres (senatori). Secondo la tradizione Petilia fu l’unica città a non arrendersi al cartaginese Annibale.
Allorchè i petilini mandarono ambasciatori a Roma per chiedere aiuto contro l’assedio, i senatori romani li esortarono a provvedere “da se stessi” e fare ciò che era più utile per la loro salvezza, non potendo venire in aiuto degli alleati per la recente disfatta di Canne. Petilia resistette per undici mesi all’assedio, ed invero non fu Imilcone (luogotenente di Annibale), ad espugnarla ma la fame. Petilia fu fedele a Roma e come afferma Valerio Massimo, “ad Annibale toccò di prendere non Petilia, ma il sepolcro della fedeltà petilina”. Silio Italico canta la gloriosa resistenza di Petilia nei suoi versi: “Fumabat versis incensa Petilia Tectis infelix fide miseraque secunda Sagunto at quondam Herculeam servare superba pharetram”. [Petilia arde, seconda (altra) Sagunto, distrutte le sue case, infelice vittima della sua fedeltà, essa che custodiva superbamente la faretra con le frecce di Ercole.] Se tutti questi riferimenti alla origine magnogreca del paese (e le vicende conseguenti) camminano sul confine, non sempre chiaro, tra storia e leggenda, maggiore chiarezza si ha per le vicende successive. Intorno al VII secolo d.C. Petilia venne occupata dai bizantini, che trovarono sul territorio l’humus ideale, per la forte ellenizzazione già presente; fu così che i monaci basiliani fondarono, nel IX sec., il romitorio che prenderà in seguito (nel 1523) il nome di S. Spina. In questo periodo l’asse storico portante passò dai paesi rivieraschi a quelli dell’entroterra, posti, come Petilia, su una sorta di roccaforte, per difendersi dalle scorrerie saracene.
Lo stesso sito di Petilia, su uno sperone di roccia, richiama le sembianze delle roccaforti militari, che i bizantini erano soliti costruire, dalle tipiche mura a scarpate. Fu così che Policastro, insieme a Belcastro e Mesoraca, formarono la cintura di difesa del Thema bizantino sulla valle del Tacina (Rocca Bernardi, l’attuale Roccabernarda, e S. Mauro, si ponevano invece come castra difensivi sullo spartiacque Neto-Tacina), come riferisce E. Infantino (Il giardino di Era, 1999, pag. 95). Dopo la dominazione bizantina arrivò, intorno alla seconda metà dell’XI secolo, quella dei normanni; si narra infatti che questi, nel 1065, guidati da Roberto il Guiscardo, assediarono Policastro e la distrussero, deportando anche i suoi abitanti, avviando così la latinizzazione del territorio: il romitorio (oggi S. Spina) passò ai monaci cistercensi della vicina abbazia di S. Angelo in Frigillo (Mesoraca), che gli imposero il nome di S. Maria degli Eremiti. Petilia entrò quindi a far parte del Regno di Napoli, di cui seguì il destino, con la dominazione dei francesi Angioini (sotto i Ruffo) prima, e degli spagnoli Aragonesi, poi. A testimonianza della signoria dei primi, si ricorda che l’attuale chiesa di San Francesco fu costruita sui ruderi di quella denominata, appunto, Santa Maria dei francesi. Al periodo aragonese, poi, risalgono i documenti (riferiti dal D. Sisca, Petilia Policastro, 1964, pag. 116 e ss.) attestanti i privilegi accordati a Policastro, tra cui quello di non essere asservito ad alcun barone, vale a dire la concessione delle libertà civiche alla Università di Policastro, che durarono fino a quando, a partire dal XVI sec., i Caraffa assunsero il dominio della città. Successivamente, sotto i Caracciolo (metà del XVI sec.), Policastro ritrovò una certa autonomia amministrativa, e se ne attribuisce particolare merito ad Isabella, duchessa di Castrovillari.
A seguito del rovinoso terremoto del 1638, Petilia venne venduta, ed ebbe un cinquantennio di asservimento al Granducato di Toscana, che la governò attraverso Filippo de Vigliegas. Seguì una serie di dominî che si succedettero l’uno all’altro, fra cui spiccano quelli di casa Campitelli e, infine, quello del principe Giovambattista Filomarino, che viene considerato l’ultimo feudatario di Petilia, conseguenza dei principî della Rivoluzione francese, portati dalla dominazione napoleonica. L’8 marzo 1832, il devastante terremoto che sconvolse il Marchesato distrusse Petilia (e con essa numerose tracce del suo passato), e si dovette procedere ad una faticosa ricostruzione. Nel 1861 la storia di Petilia comincia a confondersi con quella dell’unificazione d’Italia; delle lotte che la accompagnarono restano, nell’immaginario collettivo, i racconti delle gesta dei briganti: fra tutti spiccano le figure leggendarie di Leonardo Spinelli e Vincenzo Scalise, detto Panegrano, quest’ ultimo brutalmente ucciso il 18 agosto 1863, e la cui testa fu appesa ad un olmo in corso Giove.
Fa parte del corredo culturale acquisito, il concetto che le conoscenze dell’umanità hanno avuto una trasmissione innanzitutto orale e hanno costituito il contenuto delle tradizioni dei popoli; solo successivamente le tradizioni orali hanno avuto una sistemazione letteraria o storica dai vari personaggi della cultura.
Nell’essere costituita come tradizione orale, l’insieme delle conoscenze trasmesse dagli strati popolari sono state contaminate dalle credenze popolari intrise di magia, di superstizioni e da figure dettate dall’immaginazione collettiva che servivano, però, alle popolazioni, che non conoscevano la scienza, di darsi spiegazioni circa fatti ed eventi incomprensibili diversamente. Come sommario esempio possiamo pensare al tuono e al fulmine spiegato con la corsa del carro di Giove adirato. Oppure nella fantasia popolare i folletti o le “magarie” che popolavano i racconti fantastici. Quando, poi, tutto questo materiale è passato nelle mani degli studiosi si è verificata una pulitura di tutto ciò che era fantastico e mitologico per parlare di storie e di scienza. Tra tutti è da ricordare l’uso del mito in filosofi come Parmenide e Platone: il primo, col mito della biga trainata da due cavalli divergenti, uno nero ( rappresenta le idee fallaci) e uno bianco ( rappresenta la giustizia), si presenta come legislatore della sua città; Platone si serve del mito per trasmettere i difficili concetti del suo pensiero. Ovviamente ci chiediamo: tutto quel materiale frutto della fantasia popolare che ha formato il sostrato culturale di una comunità che fine ha fatto? La risposta è semplice: se ne è impossessata la letteratura che ha dato vita alle grandi opere di epica e romanzi di fantasia.
E’ opportuno, per comprendere ciò, fare degli esempi prendendo come modello alcune opere tra le più conosciute: quelle di Omero, di Virgilio e le “Croniche” di autori vissuti tra il seicento e il settecento. E’ universalmente riconosciuto che i canti dell’Iliade e dell’Odissea non sono altro che il risultato di tradizioni orali tramandati tra le popolazioni della Grecia classica e che uno o più autori li hanno sistemati in forma poetica fino a creare delle opere monumentali che hanno superato i secoli; su tali opere si sono formate le generazioni della Grecia e le menti più raffinate del mondo culturale romano antico (infatti qualunque letterato o giurista dell’epoca, riteneva compiuta la propria preparazione culturale e professionale solo dopo avere studiato, per qualche tempo, in Grecia e aver letto, almeno i libri di Omero); è anche riconosciuto, però, che le opere omeriche furono utili per affermare la superiorità politica e culturale delle popolazioni greche sui territori colonizzati.
Virgilio, nello scrivere l’Eneide, non inventò di sana pianta la sua opera, ma si servì di tutto il materiale preesistente prodotto dagli storici e i letterati del suo tempo, e che lo avevano preceduto e che avevano utilizzato, a loro volta, le tradizioni orali circa l’arrivo di un eroe Troiano in fuga dalla propria città distrutta dai Greci, i cui discendenti avrebbero dato origine alla città di Roma. Per quale motivo, dunque, Virgilio ripropose un mito già conosciuto dai letterati e liberato dalle scorie fantastiche dagli storici del tempo? Anche qui bisogna rifarsi alla necessità politica: Roma aveva conquistato la Grecia, era stato fondato l’Impero e regnava l’imperatore Augusto il quale aveva la necessità di presentare la supremazia di Roma giustificandola con fattori di sicurezza territoriale e culturali: Roma è la nuova Troia che si vendica della distruzione subita dai Greci; essa, ora, conquistando la Grecia, rende giustizia e con i suoi letterati diffonde la cultura del mondo latino; è in questo periodo che visse Virgilio e per questo motivo Ottaviano Augusto finanziò l’autore dell’Eneide.
Paolo Fedeli nella sua “Letteratura latina” ricorda che già al tempo di Pirro “…il poeta Licofrone interpretò la vittoria romana come una vendetta dei successori dei troiani sui Greci, distruttori della città di Priamo”. Tra il mille seicento e settecento i grandi signori chiamavano presso le proprie corti e finanziavano i letterati presenti sul proprio territori; questi autori per ringraziarli componevano le “Croniche”: opere letterarie che contenevano un misto di storia, poesia, mitologia, ma non erano né solo storia, né solo mitologia, né solo poesia; erano opere letterarie che servivano a magnificare le origini della famiglia del signore, della città da questi governata, adulare il signore stesso. Trovandoci in un’epoca di civiltà avanzata sembra inutile ricordare che i personaggi interessati erano pienamente coscienti che il mito e la poesia non rispondevano a verità.
Ora noi poniamo in essere una questione seria che nelle nostre intenzione vuole avviare una riflessione e a essa dare un contributo. Recentemente è stato presentato un libro che, a dire il vero, ci è piaciuto nella sua veste grafica e lo abbiamo ritenuto interessante come iniziativa e per alcuni contenuti; la nostra attenzione, però, forse per difetto professionale, è stata attirata dalla parte storica . E’ stata ripresentata l’origine mitica di Petilia e riproposta la storia del convento della S.Spina, attingendo a piene mani dal P. Mannarino e dalla sua “Cronica”. Questo ha indotto gli autori del libro, purtroppo, a degli errori.
La cosa attira maggiormente la nostra attenzione perché in un convegno abbiamo evidenziato che il P.Mannarino non può essere considerato come una fonte storica perché cita come fonti della propria opera sua madre e un suo zio prelato. Mai e poi mai, la storiografia contemporanea accetterebbe uno stato di cose in cui le fonti orali non siano confermate, almeno indirettamente, da fonti scritte. Dunque, il Mandarino non è attendibile, almeno per i fatti antichi, anche se può essere considerato una fonte per ciò che attiene ai fatti degli anni in cui vive. Anche le notizie circa l’origine basiliana del convento della S.Spina e della presenza cistercense non esistono fonti, anzi, le fonti da noi citate nella relazione convegnistica affermano che nel territorio di Policastro i Cistercensi non sono mai arrivati; il Mannarino non dice in nessuna pagina da dove abbia preso tali notizie, solo parla di un manoscritto del quattrocento, ma non ne fornisce il titolo né l’autore (chiunque potrebbe affermare di aver letto un manoscritto antico e fornirci notizie non certe). Evidentemente il Mannarino ha scritto, verosimilmente, una “Cronica”, cioè un’opera elogiativa, non una cronaca dei fatti storici di Petilia. Per quali motivi? Questo sarebbe interessante scoprire con una accurata ricerca. Un’altra notizia da rivisitare è quella circa la carta geografica firmata da un Bàiolo di Policastro datata 226: L’errore è evidente perché il Bàiolo è un amministratore della giustizia durante il Regni di Napoli nel 1200, mentre nel 226 in Italia c’era l’Impero romano e il “Baiolus” equivaleva al portatore dello stemma nell’esercito. Cosa si può concludere dall’esame del testo?
Che procedendo in maniera acritica e senza la consultazione certa di fonti altrettanto certe si rischia di creare altri miti che non chiariscono e non aggiungono altro a ciò che il Sisca e il Mauro hanno detto riprendendo a piene mani il Mannarino e riportando gli stessi difetti. Ma, alla luce di quanto si è detto sul mito, oggi Petilia ha bisogno di altri miti? Questa è la domanda fondamentale, rispondendo alla quale riusciremmo, definitivamente, a uscire dall’equivoco. Proviamo a trovare la risposta definitiva ponendoci altre domande: Il mito sulle origini di Petilia, così come è posto , aiuta a formare una coscienza sociale? Esiste un “capo” da adulare, una famiglia da esaltare attraverso il mito della fondazione? Ha un contenuto politico o di potenza, da rappresentare presso la nostra o altre comunità? Ha un contenuto culturale da affidare alle generazioni future e da fare risplendere presso altre società? Nell’epoca della globalizzazione, delle nuove frontiere tecniche e culturali, l’affermazione di una identità sociale attraverso un mito è, a noi sembra, fuori luogo. La coscienza sociale, oggi, si forma attraverso i valori della famiglia, dello studio e dell’applicazione nella ricerca ( si pensi agli Stati Uniti e ai paesi occidentali che hanno fatto progressi su questo campo), del lavoro cercato e ottenuto con onestà, della produzione, della solidarietà sociale. La storia può essere utile solo se si fonda su fatti reali attraverso i quali tutta la società può ritrovare il senso di appartenenza; il mito, in quanto fatto non certo e favoloso, non è più identificativo di un corpo sociale.
Non esiste un capo, per il semplice motivo che il popolo petilino è acefalo; può esistere il capo popolo o populista, ma gli ultimi tempi hanno dimostrato che la loro durata non è lunga se non si attiene al mandato per cui il popolo lo ha scelto. La propria potenza ( meglio la potenzialità) e la valenza culturale non si affermano più con i miti, ma con progettualità serie e proposte culturali di un livello alto. Non vi sono leggi da imporre, anzi serve una identità storica certa perché il nostro popolo impari a rispettare le regole che già esistono. Certamente il popolo deve capire ciò che si propone, per evitare che sia qualcosa di astratto, ma ciò è affidato ai mezzi di comunicazione che mediano ( mass- media, appunto); non si può, con quelle giustificazioni, imbottire la popolazione di fantasie e falsi storici La soluzione, allora, sarebbe quella di riconoscere la sola valenza mitologica delle notizie in possesso e, attraverso questo materiale, a partire dalla cronica del Mannarino, considerare patrimonio solo letterario il mito delle origini. Ciò contribuirebbe a costituire la base di una letteratura petilina, della quale tutte la generazioni potrebbero usufruire.